Gli anni pandemici che stiamo vivendo devono insegnarci nuovi princìpi, per governare il lato vitale dell’incertezza. Noi italiani nella nostra storia lo abbiamo sempre fatto anche se raramente lo ricordiamo. I nostri grandi pensatori da Giordano Bruno a Tommaso Campanella, da Marsilio Ficino a Leon Battista Alberti, fino a Guicciardini e Pico della Mirandola, sono tutti pensatori della crisi. Hanno tutti la consapevolezza di vivere in un tempo dominato dal caos e dal disordine, e solo così riescono a diventare straordinari architetti del pensiero, arrivando a influenzare per secoli, con le loro opere e la loro attività intellettuale, intere generazioni di politici, filosofi, e poi manager e imprenditori. Perché l’incertezza stimola la creatività, la fantasia, l’immaginazione, alimenta la capacità di sperimentare nuove pratiche e nuovi modelli di pensiero. Lavorando su ipotesi che includono ciò che Machiavelli e Guicciardini definiscono con una parola: l’inopinato.

Ecco il motivo per cui l’utopia oggi va reintrodotta nella cultura aziendale: per trasformare l’inopinato che il Covid ha rappresentato, in un propulsore di irresistibile innovazione, in una finestra sul mondo nuovo. Per valorizzare la dignità del lavoro (tra smartworking e nuove relazioni di fiducia) in un contesto di rinnovato entusiasmo per progetti personali che diventano aziendali e viceversa. Per inaugurare nuovi percorsi di crescita in cui la motivazione possa incontrarsi con la performance e con la realizzazione di sé. Ecco perché ogni visione imprenditoriale deve tornare a nutrirsi di quella linfa utopica che ha reso grandi Alessandro Manuzio e Adriano Olivetti, Ettore Sottsass e Renzo Piano, Bruno Munari e Gianni Rodari, Giorgio Armani e Italo Calvino, Umberto Eco e Alberto Alessi. In un mix in cui letteratura, design, editoria e architettura, costituiscano le architravi della nuova casa che dobbiamo costruire: Utopia impresa.

Condividi su: